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Vita e profilo artistico di Stanley Tomshinsky


Stanley Tomshinsky nasce a New York nel 1935, figlio unico di padre e madre ebrei di origine lettone, emigrati in America negli anni '20. Dopo la laurea in giornalismo, attratto, come gran parte degli intellettuali americani, dalla cultura europea, e curioso di scoprire e condividere quel clima di contemporaneità delle avanguardie artistiche dentro l'esistenzialismo vissuto come esperienza, si trasferisce in Europa scegliendo come destinazione Parigi, dove comincia la sua avventura d'artista come scultore.

In un negozietto di rue de Seine a Parigi acquista il primo pacchetto d'argilla sintetica, ma sono il rame, il ferro e la saldatura i mezzi attraverso i quali dà vita a sculture filiformi, astratte e 'surreali'. Totem, figure, creature mitologiche diventano l'espressione simbolica dei temi cari alla ricerca filosofica e spirituale di Tomshinsky: Dio, l'uomo e l'universo.
Con coraggio affronta in quegli anni il linguaggio della scultura intesa come forma aperta proposta alla fine degli anni '20 dallo scultore spagnolo Julio Gonzales e ulteriormente sviluppata dall'americano Alexander Calder con le sculture mobili. Come fecero altri artisti, già nella scultura di quel periodo disvela una cifra del tutto personale, connotata da strutture geometriche attraversate da filamenti morbidi, fluenti che ad un'attenta lettura ci portano dentro a flussi di energia cosmica: l'estremo Oriente con la spiritualità buddista e lo Zen, che Tomshinsky organizza con sapiente chiarezza.

Da autodidatta studia la matematica, le strutture molecolari e biologiche della vita, il colore e le simbologie universali, che integra tra loro in una ricerca che, di fatto, costituisce la base del suo percorso esistenziale e spirituale.

Dà una impostazione concettuale e stilistica alla sua scultura, che lui stesso definisce come improntata all' "astrattismo simbolico". La tendenza è quella dell'astrazione più completa, passando tuttavia attraverso la ricerca di una simbologia che non solo si rifà al segno astratto, ma a connotazioni simboliche più complesse, come le figure totemiche e archetipiche, le mitologie arcaiche, l'animismo che pervade ogni cosa sino a configurare l'energia cosmica. "Nelle mie sculture, che io chiamo 'astrazione simbolica', - afferma Tomshinsky - il segno astratto, congiunto al movimento lineare, crea il simbolo, e cioè l'astrazione dell'Idea. La chiave dell'astrazione è nei segni e nel loro movimento. L'astrazione si manifesta dell'universo in tutta la sua entità".

Le sculture in filo di rame possono far pensare alle costruzioni filiformi del Balla del '22, ma solo indirettamente, e inoltre alle esperienze di Calder. Tuttavia in Tomshinsky nulla è intentato o casuale: "La sintesi di queste opere - commenta Luigi Lambertini - rappresenta formalmente un preciso atteggiamento ed una individuazione ideale. Potremmo addirittura affermare - prosegue il critico italiano - che abbiamo una scultura trasparente perché Tomshinsky ha saputo, con questo suo mondo che ci trasporta nella cabala ed in un regno diafano ove la sensibilità dell'essere diviene ieratica individuazione e sintesi primordiale, suggerire uno dei tanti volti nascosti attraverso i quali il tempo e lo spazio passano silenziosi". Scriveva Dino Buzzati, come critico del "Corriere della Sera", nel 1968: "Fantasia, stilizzazione, garbo decorativo, pulizia, semplicità. Ma poi Tomshinsky scrive di voler '... tracciare il movimento spirituale nell'ordine cosmico… esprimere l'Universo come infinito'. E allora, come la mettiamo?".

Nella metà degli anni '70 Tomshinsky viaggia ancora ed espone a Milano, Vienna, Parigi, Düsseldorf, Zurigo, Bruxelles, Londra, Roma e Torino, iniziando in quel periodo a fare della pittura ad olio: molto sensibili le stesure della materia pittorica in quel tempo. La sua ricerca è indirizzata prevalentemente all'astratto lirico con alcuni lavori riconducibili ad una stilizzata figuratività.
Tomshinsky aveva deciso nel 1966 di fare di Milano la sua città ideale, sebbene viaggiasse molto. I genitori venivano a trovarlo con l'intento di riportarlo negli Stati Uniti, ma neppure sua madre, che lui adorava, lo convinse a ritornare in America. Viaggiava di continuo ma ritornava sempre nel suo studio in Via Fiori Chiari; di fatto, aveva trovato la sua dimensione proprio in questo luogo nel cuore di Brera, apprezzandone anche la qualità di vita. A Brera incontrava gli amici e i conoscenti, dialogava pacatamente con loro d'arte e del suo lavoro, con malcelata irritazione discuteva sulle politiche del mondo, leggeva i giornali collegato via internet. Tra questi amici 'd'arte': Gianni Dova, Ibrahim Kodra, Giuseppe Migneco, Roberto Crippa, Remo Brindisi, Maria Grazia Chiesa, Enzo Nocera, Mario Robaudi, Domenico Lini, Julian Schnabel, Eduardo Guelfenbein. Inoltre tramite l'amico Guy Harloff conobbe e frequentò i galleristi Arturo Schwarz e Carlo Cardazzo, che incisero in maniera decisiva sulla scelta di rimanere a Milano.

Nel 1969 scopre di avere l'epatite virale: la malattia gli toglie le forze necessarie per piegare il ferro e il rame, e, 'grazie' ad un attacco, si dedica al disegno e all'acquarello, pensando così per la prima volta di portare le sue opere sulla tela, animato dallo stesso spirito con cui eseguiva le sculture e conduceva la sua ricerca sulla struttura e il movimento delle cose. Dà così avvio al suo lungo percorso pittorico, che vent'anni dopo lo porta anche a realizzare nel 1989 un sito internet sul suo lavoro. Incuriosito dalle potenzialità del computer, comincia a realizzare immagini di grafica, avviando, in largo anticipo sulle ricerche che ben presto si svilupperanno in questo campo, un'intensa sperimentazione sull'immagine digitale e l'animazione.

Ricorda Mario Robaudi di lui: "Viveva essenzialmente nella concentrazione del suo tracciato di ricerca, senza più troppo interessarsi al mercato. Definitivamente preso dalla pittura, si libera dall'inevitabile condizionamento che la scultura astratta gli aveva imposto. Vive sempre più la bellezza del valore timbrico; irrompe sulla superficie del quadro con l'impetuoso gesto reso automatico da un dinamismo irriverente, sovrapponendo i gialli ai rossi, i blu cerulei ai blu scuri, e per ultimo i bianchi, a disarticolare ancor più l'immagine e quasi a velare le strutture sottostanti.
Un uso pittorico che mantiene un rigoroso manifestarsi ma che via via perde l'ultimo sensibile approdo sul versante spirituale per entrare definitivamente nella gioiosa rabbia di un'entropia lucida vissuta nell'esistenzialità dominante del presente. La spiritualità di Tomshinsky si manifesta ormai per sintomi celandosi alla rappresentazione, quale contenuto delicato e troppo fragile per essere esposto alla violenza dei tempi. Tomshinsky nell'ultimo periodo della sua pittura si è sempre più allontanato dall'immagine impiegando il bianco e il colore come pura materia pittorica in perfetto equilibrio in rapporto alla dimensione del quadro, mentre affioravano improbabili paesaggi o forse segmenti o frattali di articolazioni vagamente oniriche. Una metafisica dell'inconscio distaccata, quasi un congedo dal mondo, nell'irriducibile speranza di una gioia interiore sognata con prevalente poesia".

Colpito da una malattia inattesa, muore a Milano nel febbraio del 2004, dopo sei mesi vissuti con il sereno fatalismo dell'uomo che ha sperimentato il percorso di una vita intensa, vera e spiritualmente concreta ma anche fatta di quelle solitudini che spesso appartengono ai veri artisti. Muore conquistandosi una cittadinanza acquisita per sempre nella storia artistica della città di Milano.

Come ultimo atto, prima di morire, decide di lasciare come eredi delle sue opere due cari amici: Flavio Cruciatti ed Ermanno Di Mario, conosciuti e frequentati in periodi diversi della sua vita e che s'incontrano per la prima volta nella struttura dove è ricoverato per un tumore ormai in fase terminale.

All'indomani della mostra antologica e retrospettiva realizzata nel 2006 dagli eredi al Museo della Permanente di Milano e curata da Luciano Caramel, che ha visto l'afflenza di più di 400 persone, due articoli di critica, tra i molti positivi che meglio hanno saputo rendere in modo più attuale e contemporaneo l'interpretazione dell'artista, risultano quello di Domenico Montalto, apparso su Studi Cattolici, quello di Sebastiano Grasso sul Corriere della Sera e quello di Pia Capelli sul Domenicale.

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